Lire La Chèvre jaune & Balade caprine à travers la littérature tourangelle

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« Ero nella culla e veniva a farmi visita. Sono stato allevato col suo latte dacché mia madre perse il suo. Mi fu nutrice e compagna. No, non posso dimenticare Mammacapra ; quando di primavera le piante germogliano, la ripenso più che mai.

Abitavamo in una casa posta al limitare della piazza del paese e che aveva un porticato a cui si accedeva salendo scale di pietra antica. La capra stava sul retro, in un capannotto di tavole. Spesso, forzatone l'usciolo, veniva a trovarmi. Diceva mio padre che i suoi passi sul piancito emettevano un « cric » « cric ». Varcata la soglia della mia camera s'avvicinava alla culla, guardandomi coi suoi occhi colore di perla e di mogano. Non aveva corna, era quindi detta « zucca » ; alta e forte, aveva il mantello bianco, con qualche banda scura. Qualcuno di casa, presala per il lungo pizzo, la riconduceva nel capannotto. La lasciavano libera allorché mi portavano in giro dietro casa, lungo il sentiero del bosso che saliva e scendeva tra prati e castagneto, ora avvicinandosi al paese ora allontanandosene. Lei veniva dietro ma, a quanto dicono, al solo scopo di starmi accanto. I paesani non la guardavano di buon occhio: le capre rovinavano le colture brucandone le parti tenere e vitali, poi s'arrampicavano sui muri a secco, danneggiandoli. Le guardie forestali non esitavano a elevare multe a chi le lasciava incustodite. Mio padre, nelle sere di primavera e d'estate, tornato dal lavoro, andava a procurarle erba e rami con foglie ; la cosiddetta frasca. Ne aveva bisogno per fare il latte. Alla sera mia madre o la nonna la mungevano. Docile, lasciava che i suoi capezzoli fossero spremuti. Una notte d'estate, forzato come al solito l'usciolo, entrò in camera mia passando dalla finestra del corridoio e vi rimase fino all'alba, o meglio : fino a quando non mi destai emettendo i disperati vagiti della vita e della fame. La finestra di cima al corridoio, lasciata accallata, era assai bassa : la capra l'aveva valicata oltrepassandone il davanzale. Nel momento in cui la allontanarono, puntati gli zoccoli a terra emise un lungo belo simile a un vagito stonato, tenendo il muso rivolto alla culla. Era l'alba, quando il sole espande il suo rosso tenero sui muri e le pareti delle case ; in quella luce, mio padre e mia madre videro un grosso scorpione scendermi verso la testa dalla volta della culla. La capra, col suo intuito misterioso, l'aveva veduto e li avvertiva. In premio le venne data una manciata di sale. Il tempo passava e presi a impossessarmi del mondo. Nei meriggi d'estate, mia madre mi portava dai parenti nell'ora in cui, a seguito della canicola, facevano sosta. Stavano assisi al fresco, in una grande aia delimitata da grandi rocce bernoccolute. C'erano gli zii. Uno piccolo e magro, che succhiava tabacco e pensieroso, l'altro alto e robusto col cappello a larghe tese e bretelle, che parlava a voce alta. Una voce altisonante, a tratti autoritaria. Era stato sergente di fanteria nella Prima guerra mondiale. Poi le zie, donne dai lunghi e svasati gonnelloni. Mi facevano una gran festa. Dicevano che il latte di capra m'aveva fatto crescere forte e sano, altrimenti avrei potuto rimanere cicco e scacarito, ossia piccolo e mingherlino. In quei pomeriggi venni anche a sapere che la capra proveniva da un baratto tra mio padre e lo zio sergente. Mio padre, in cambio della capra, gli aveva dato una carriola, meglio conosciuta come pruetta. M'aggiravo intorno le stalle. In una dal tetto di paglia, si trovava un grosso miccio nero. Aveva una cavezza costellata di borchie, e frangeva fieno con aria saputa e aristocratica, ma forse gliela conferiva la cavezza. Le giornate più belle erano tuttavia quando, nel pomeriggio, anziché andare dai parenti, io e mia madre portavamo la capra al pascolo. Con la canicola nessuno andava in giro. Nemmeno le guardie forestali. La capra attendeva quel momento belando dal capannotto. Scendevamo lungo il greto d'un torrente che scaturiva da una selva oscura di castagni e di querce. La capra scivolava negli scoscendimenti e brucava dai rami delle piante. Felice, mordeva e strappava muovendo lo spazzolino della coda. Qualche volta venivo affidato a una ragazza bionda, gli occhi chiari, così diversi da quelli della capra. Mi conduceva nei sentieri, tra profumo di menta, nepitella, alloro e certi strani fruscii tra sterpi e rocce. Un turbamento, che ricordo come l'inizio dei malesseri che m'avrebbero accompagnato nella vita, mi faceva cingello alla gola. La capra non era con noi. Ma a me era lei che interessava, era con lei che volevo andare a spasso. Allora cercavo di ritrovarla o vederla nella ragazza che, infatti, aveva lunghe gambe e volto scarno. Le mancava il pizzo. La ragazza era con me molto dolce. Mi carezzava i capelli e diceva che avevo la fronte spaziosa dei poeti. Ma io volevo tornare a casa, volevo andare dalla capra e glielo dicevo. Lei, senz'altro divertita dalle mie richieste, sorrideva. Io interpretavo quel sorriso come un diniego e l'ira, che mi pareva la miglior rivalsa contro il mondo, mi infuocava la mente. M'abbandonavo, allora, a quanto di peggio o di meglio possa fare un bambino : le bizze. Infine avevo partita vinta. La ragazza mi portava all'ovile della capra che, muso poggiato sopra l'usciolo, fremeva e belava.

Dio m'ha dato il dono della memoria. Il mio passato più remoto, a cominciare dalla prima infanzia, mi riaffiora non con ombre, ma immagini. Un bagaglio di ricordi, emozioni, trasalimenti, sprazzi di felicità e angosce che mi creano sovente apprensione e tormento. Col trascorrere degli anni temo che possano sfuggirmi o cadere nell'oblio d'uno smemoramento. In tal caso non sarei più io e ne ho una sorta di terrore. Perderei il mio vissuto, quindi anche Mammacapra, come iniziai a chiamarla dentro di me il giorno che non la vidi più con gli occhi della carne, ma solo con quelli della mente. Accadde quando d'improvviso, o così a me parve, emigrammo in Belgio, dove mio padre farà il minatore. Sin da quando partimmo, e poi in seguito, venivo assalito da una profonda malinconia: pensavo a lei. Allora piangevo. I miei credevano fosse effetto del trasferimento, invece no. Un giorno chiesi loro cosa fosse stato di Mammacapra, visto non se ne parlava più. Le mie giornate erano tristi, tra cielo grigio,tralicci di miniere e uomini che andavano e venivano dalle baracche neri di polvere di carbone. Mio padre, stupito e quasi irritato, mi rispose che la capra era stata venduta. Ormai non ne avevo più bisogno. Si sbagliava. Il sapore del suo latte, amaro di radici e leggero, m'era dentro alla stregua d'una memoria. E lo desideravo non so dire quanto, specie nei momenti di sete e di solitudine. Una notte mi svegliai di soprassalto. Contro i vetri della finestra qualcuno mi guardava. Non credei ai miei occhi. Possibile che Mammacapra fosse così vicina e, nello stesso tempo, così irraggiungibile e lucente? Una falce di Luna brillava in mezzo ai tralicci della miniera e sembrava il profilo del suo muso oltre la siepe delle more che cresceva al margine d'un prato del mio paese.

Tornammo in Italia dopo non so quanto. L'infanzia non scandisce il tempo. Ne vive semmai al di fuori tra emozioni e ricordi di cose, persone e paesaggi che vedono soltanto i bambini. Non appena arrivato chiesi dove fosse Mammacapra. Nessuno rispondeva, altri mi guardavano come quando gli veniva chiesto di un congiunto disperso in guerra. Forse perché mi esprimevo più in francese che in italiano, che avevo in parte dimenticato. Ma era primavera, la stagione della transumazione. Dal piano tornavano gli armenti. L'aria si impregnava del loro odore aspro e pungente, mitigato dai profumi dell'estate, tra cui quello dei roseti in fiore. Un giorno che giocavo col mio grande cavallo di cartapesta vidi un gregge sbucare dalla curva dei tre faggi. Ma non pensavo a Mammacapra. Pensavo, senz'altro, a una cavalcata in quei regni immaginari che, negli anni, sarebbero sempre più divenuti i panorami della mia realtà interiore. Sennonché accadde una cosa insolita. Dal gregge si distaccò una capra che, belando, salì le scale a venne sulla terrazza. Mia madre, ch'era alla finestra, disse non ricordo cosa tra meraviglia e stupore. La capra m'era di fronte, ma non la riconobbi. Poi la ravvisai dal pizzo e dallo sguardo, che mi sembrò triste. Benché stesse immobile, era percorsa da un tremito. La carezzai con nel cuore un tumulto inspiegabile, ma che mi fece sentire veggente ; s'era realizzato ciò che avevo tanto evocato con la mente. Mia madre, diceva : « Non è possibile, ma da dove è venuta ? ». Il gregge era ormai sotto casa. Mammacapra tornò con le sue simili. Volevo andare con lei. Mia madre mi trattenne portandomi in casa. Mi ribellai con tutta la forza di cui ero capace. Dovette essere una ribellione estrema e incontenibile, poiché venni percosso e chiuso in un stanza. La sera, entrambi i genitori mi rimproverarono ; secondo loro il mio comportamento era quello d'un bambino ammalato ; mai era successo che qualcuno volesse bene a una capra alla stregua d'una persona. E aggiunsero che la capra s'era fermata non tanto per me, ma perché aveva riconosciuto il luogo in cui era stata. Gli animali - conclusero - sono capaci di queste cose. Mi sentii umiliato e contraddetto. Intanto rifuggivo la compagnia degli altri bambini. I loro giochi, le loro burle mi annoiavano e mi infastidivano. Ciò che a me interessava era di prendere possesso del mondo che avevo attorno e delle parole, di cui avrei voluto capire, subito, il significato. Poi ero attratto dai suoni e dai rumori. Da quelli di pioggia e vento e da quelli che, a seconda dei momenti del giorno e della notte, provenivano dal paese. M'incantavano, anche, i colori dell'aria ; avevo scoperto la diversità che passava tra quelli di mattino, pomeriggio e sera e cercavo d'impadronirmi delle loro variazioni, ma per farlo dovevo conoscere il significato e il peso delle parole. Voler bene a una capra e non riuscire a imbrigliare emozioni e sentimenti con un qualcosa che li facesse sentire di mia assoluta proprietà, mi dava l'impressione d'essere un diverso. Risolverò la cosa andando a scuola. Già imparando a scrivere il mio nome e cognome cominciai a trovare come delle chiavi di lettura del mondo. Ma Mammacapra era qualcosa di più d'una parola. Era, potrei dire, l'inizio della mia memoria. In quei giorni stetti, dunque, molto in ascolto dei campani delle greggi al pascolo nei prati e boscaglie soprastanti il paese. Mammacapra aveva una campanella che emetteva un suono leggero come il suo latte, e che avrei riconosciuto si fosse avvicinata. Ma ciò non avveniva. Cercavo, quindi, di evocarla con la mente. L'estate esplodeva forte e luminosa come un'amazzone scintillante di armi. Mattino, meriggio e sera scorrevano ben distinti uno dall'altro, assecondati dalle voci e dai rumori della gente. Qualche pastore, con scarponi e bisaccia, seguito dal cane, andava all'appalto di « Sali e tabacchi » a comprare trinciato forte per pipa o sigari Toscani. Frettoloso, ritornava alla volta del gregge. Verso mezzogiorno, talvolta, nubi grandi e bianche come ammassi di cotone, offuscavano gli Appennini ; preceduti da qualche tuono, cadevano scrosci di pioggia che subito cessavano, e il cielo tornava limpido e luminoso; nell'aria erano passati come degli echi. Cielo, montagne e paese sembravano,così, non avere più distanze. Una domenica mattina, di quelle in cui la gente faceva veramente festa e i pastori avvicinavano le greggi al paese, io e mio padre eravamo seduti nell'andito di casa, comparve Mammacapra. Passo morbido ed elegante, il lungo muso bianco e il pizzo scuro, varcò la soglia belando stridula. Fremendo tutta mi s'avvicinò. Le forze del mio corpo e del mio spirito divennero un'unica, lacerante emozione. Mio padre prese a carezzarla con me ; dalla cucina vennero mia madre e la nonna. Dicevano : « Oh, è tornata la capra del bimbo ! ». Io l'abbracciavo invocando i miei di non lasciarla andare. La nonna propose di riacquistarla. Mio padre disse che non si poteva. Stavamo per trasferirci ancora. Come la capra avesse capito si voltò tornando fuori, allontanandosi nel sentiero dalla parte del capannotto. Fu l'ultima volta che la vidi, ma continuai a pensarla anche quando presi a vivere lontano da lì. Ogni volta che m'imbattevo in un gregge, osservavo se c'erano capre. Non ne vidi mai. Nei paesi di pianura si preferivano le pecore. Intanto, andando a scuola, m'impossessavo sempre più delle parole. Sentivo che m'appartenevano alla stregua della vita ; grazie a loro mi sembrava di conoscere sempre meglio la realtà che mi circondava e di poter così entrare nel mondo degli adulti visto che, a quei tempi, ai bambini veniva data poca considerazione, anche quando facevano domande. E io, domande, ne facevo sempre tante, e non solo ai genitori. Poi dovevo guardare per capire, o meglio osservare. Scrutando la faccia d'una persona cercavo d'indovinarne intenti e pensieri. Vedevo, quindi, con occhi diversi quando vi ritornavo gli abitanti del paese. C'erano due vecchie a cui pensai di chiedere notizie di Mammacapra. Ogni giorno mandavano al pascolo tre pecore e due capre. Erano donne alte, magre e dalle lunghe gambe e calzavano scarpe del colore degli zoccoli dei loro ungulati. Le tenevano in una stalla in mezzo alle case, la cui porta aveva un pertugio dal quale s'affacciavano ogni volta che passavo. Se mi ci fermavo di fronte e le parlavo, belavano. Un belato amico e supplichevole, diverso da quello di Mammacapra, intimo e complice. Ma se le trovavo al pascolo nei prati, un attimo mi guardavano e poi s'allontanavano alla stregua di fanciulle o donne selvatiche ; forse erano davvero tali le ragazze delle antiche tribù, nostre ave che, con le capre, condividevano l'esistenza. Un pomeriggio, già adolescente, giunsi nei pressi d'un casolare sconosciuto ; sul retro, in un valloncello, si trovava un gregge di pecore e capre : pascolavano prive di campani. Mi tornò alla mente quanto avevo udito raccontare dalla nonna: che un gregge errante vagava, da sempre, su quelle montagne senza pastore. Nessuno era capace d'avvicinarlo ; s'allontanava o spariva tra le rocce degli alti pascoli, tra vento e nebbia. Stavo per tornare sui miei passi, quando un cane lupo nero mi venne appresso minaccioso. Risuonò una voce : da una porta a piano terra del casolare uscì un uomo. Alto e magro, aveva barba e occhi lucidi. Mi salutò col fare di chi ben mi conoscesse. Poi chiese notizie di mio padre. Io guardavo i suoi occhi e la sua barba : sembravano polvere. Un paio di capre mi vennero appresso. L'uomo fischiò al cane, che le fece tornare nel branco. Poi prese a raccontare : « Sono nipoti della tua. Me la vendette tuo padre prima d'andare in Belgio. Non ti dico quanto mi fece tribolare quella bestia : scappava e tornava a casa tua. Si calmò quando la portai sull'Alpe e di primavera le nacquero i capretti, che seppe bene allevare. Ma, nonostante tutto, non s'avvezzò mai a stare col branco. Così accadeva che s'allontanasse andando sui dirupi dove l'erba era più tenera. Un pomeriggio di settembre nebbia e nubi calarono tanto fitte che mi costrinsero a riprendere la via dell'ovile. M'avvidi, però, che mancava la tua capra. Era rimasta a fare il comodo suo. Dissi al cane d'andare a cercarla. Ma, in quell'attimo, sentii nell'aria come una pressione che scende : era l'aquila che calava sui capretti. Quasi subito, mi giunse la eco d'uno schianto. Credei che l'aquila li avesse fatti precipitare nel dirupo; invece giunsero di gran carriera dal sentiero. La madre li aveva salvati, parandoli dalle bordate del rapace, ma lei era finita nell'orrido. » Non dissi niente. Non vi sarei riuscito. Giorni dopo tornai da lui per farmi indicare l'altura della tragedia. All'alba e al tramonto una piccola stella vi brilla sopra. E sarà sempre così. Guardando lei, rivedo Mammacapra. »

Vincenzo Pardini, Racconto uscito su Paragone Letteratura, Agosto-dicembre 2006

Vincenzo Pardini è nato nel 1950 in un paese della Media Val di Serchio e vive oggi a Stabbiano, vicino Lucca. Collabora ai quotidiani « La Nazione » e « Il Giornale », al supplemento « Tuttolibri » de « La Stampa » e alle riviste « Nuovi Argomenti » e « Paragone ».

Ha pubblicato numerosi racconti e romanzi : La volpe bianca (La Pilota, 1981), Il falco d'oro (Mondadori, 1983), Il racconto della luna (Mondadori, 1987), Jodo Cartamigli (Mondadori, 1989), La mappa delle asce (Theoria, 1990), La congiura delle ombre (Theoria, 1991), Un testo per ragazzi, Giovale (Bompiani, 1993), Rasoio di guerra (Giunti, 1995), Pumillo il gatto dei boschi (Laterza, 1999), La terza scimmia (Quiritta, 2001), Lettera a Dio (peQuod, 2004), Tra uomini e lupi (peQuod, 2005), Premio Viareggio-Répaci e Il falco d'oro (peQuod, 2006). Da Jodo Cartamigli, il regista Giovanni Veronesi ha tratto il film Il mio West con Leonardo Pieraccioni, Harvey Keitel e David Bowie. Sempre per il cinema ha scritto il soggetto Metronotte interpretato da Diego Abatantuono. Si è aggiudicato il premio Pasolini di poesia 2001.

Merci à Giulia Grazi de m'avoir transmis et recommandé ce texte.




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